Regia: Hayao Miyazaki
Doppiatori originali: Hideaki Anno, Miori Takimoto, Hidetoshi Nishijima, Masahiko Nishimura, Steve Alpert, Morio Kezama
Sceneggiatura: Hayao Miyazaki
Fotografia: Atsushi Okui
Montaggio: Takeshi Seyama
Paese/Anno: Giappone, 2013
Distribuzione: Lucky Red
Durata: 126’
Genere: animazione, drammatico
SINOSSI
Nella provincia giapponese del 1918, un ragazzo di nome Jirō spera di diventare un pilota d’aereo, ma la sua miopia glielo impedisce. Ispirato da una rivista d’aviazione, Jirō sogna il famoso progettista di aerei Caproni, che gli fa capire quanto costruirli sia meglio che farli volare.
Cinque anni dopo, Jirō prende un treno diretto a Tokyo per studiare ingegneria e a bordo incontra una ragazza di nome Nahoko. Durante il viaggio, un devastante terremoto interrompe la corsa del treno. Jirō aiuta Naoko e la sua domestica, rimasta ferita, ma se ne va senza lasciare il suo nome. Jirō inizia a lavorare allo stabilimento della Mitsubishi come progettista e viene inviato in Germania per acquisire le tecniche di costruzione e la licenza di produzione di uno Junkers G 38, leggendario caccia tedesco. Lì, sogna nuovamente Caproni, che gli ricorda della bellezza degli aerei, nonostante vengano poi utilizzati come armi.
Nel 1932 Jirō viene promosso capo della progettazione di un caccia per la marina militare, ma il progetto fallisce miseramente. Deluso, si ritira in campagna e qui incontra di nuovo Nahoko. I due si fidanzano, ma la ragazza, che ha la tubercolosi. Jirō e Nahoko si sposano in fretta e passano dei bei, seppur brevi, momenti insieme, ma le condizioni di lei peggiorano. Il giorno del collaudo del nuovo prototipo di Jirō, Nahoko lascia delle lettere d’addio ai familiari e a suo marito. Quando il caccia atterra e i festeggiamenti cominciano, Jirō viene distratto da una raffica di vento. Nahoko non c’è più.
Durante la Seconda Guerra mondiale, Jirō sogna di nuovo Caproni. Il desiderio di creare un aereo bellissimo è stato realizzato, nonostante vi abbiano montato sopra dei mitragliatori: un gruppo di Zero sfreccia davanti ai due. Da una collina del verde campo in cui sono compare Nahoko, che lo esorta: vivi.
RECENSIONE di Davide Di Giorgio, Sentieri Selvaggi
Il volo per Miyazaki non è una semplice questione di vertigini: le sue figure sono come sospinte dal vento e quando si librano nel cielo danno l’impressione di essere ben piantate nel nulla, solide, ferme. Poi c’è il momento in cui cadono, perché la meccanica arriva a esigere il suo tributo di realtà. L’undicesimo lungometraggio del Maestro nipponico è questo: il racconto di un conflitto tra il sogno di un progettista di aerei (Jiro Horikoshi, realmente esistito) e la realtà che strappa quelle aspirazioni alla fantasia per ricondurle al più immediato bisogno bellico. Che poi è la metafora su cui si regge tutto il cinema di questo straordinario cantore dell’animazione, quella del conflitto tra la dimensione ideale e la concretezza del vero, dove il secondo è trasfigurato dalla poesia dei disegni, ma ha il suo peso nell’economia della narrazione. Sarà anche per questo che la figura di Horikoshi ha parecchi tratti in comune con quella dello stesso Miyazaki (persino il modo di vestire è lo stesso, con l’inconfondibile cappello da pescatore, mentre la voce è dell’amico e collega Hideaki Anno), e che la storia del suo percorso professionale e umano è una sorta di enorme immersione in una dimensione mentale, che però si presenta con i crismi del racconto storico-biografico fra i più rigorosi dell’autore.
Sebbene slanci lirici aprano nella vicenda alcune parentesi immaginarie in cui Jiro si intrattiene con l’ingegnere italiano Giovanni Caproni, la vera differenza la fanno i dettagli, come la straordinaria intuizione di creare i suoni degli aerei attraverso le voci dei rumoristi: la metafora perfetta di un volo concepito come espressione di un gioco infantile. Così, se Jiro progetta i suoi aerei attraverso fitte sessioni di disegno che poi trovano il loro più alto momento espressivo nella splendida sequenza in cui il nostro insegue un aeroplanino di carta, l’intero racconto diventa l’elaborazione di un processo creativo in perenne divenire. La struttura riesce perciò a sopportare gli scossoni di una progressione più diseguale del solito, aperta a derive più lente e seriose in cui Miyazaki sfoga la sua passione per la meccanica illustrando i passaggi tecnici che hanno portato alla creazione del celebre aereo da combattimento Mitsubishi AM6 Zero. E esplode letteralmente con il delicato racconto d’amore del legame che si crea fra Jiro e la sua amata Naoko: altro rapporto in bilico, peraltro, che sta fra la forza ideale di un sentimento che permette ai due di sorreggersi a vicenda lungo le difficoltà imposte dalle sfide, e la concretezza di una realtà fatta di problemi lavorativi e, soprattutto, sofferenze fisiche per la donna, assediata dalla tubercolosi.
Ne consegue che il film stesso è sospeso, ben piantato nel sogno a occhi aperti in cui i corpi si librano leggeri nel nulla, mentre il destino incombe sotto forma di un nuovo conflitto (i fatti anticipano di poco la Seconda Guerra Mondiale, dove i caccia Zero giocarono un ruolo di primo piano per l’industria bellica nipponica). Il bello è come i contorni siano sfumati: Miyazaki non è diretto come ne Il castello errante di Howl, evoca lo spettro della guerra ma lo lascia sempre sullo sfondo, gioca a rovesciare alcune figure retoriche e il terremoto del Kanto del 1932 non ha quel sapore rigenerativo che aveva lo tsunami di Ponyo sulla scogliera, è distruzione e sofferenza, ma è anche il punto d’origine della storia d’amore. E’ dunque chiaro come questa storia di successo sia anche il racconto di un più generale fallimento, esattamente come accade alla storia d’amore tra Jiro e Naoko. E’ un racconto per questo allegro, ma con un fondo di struggente malinconia, fuggevole eppure presente a se stesso. Un film per questo, che è come il vento.
APPROFONDIMENTI
La carriera del vero Jirō Horikoshi viene adattata da Miyazaki in maniera storicamente accurata, mentre il Jirō privato è pura espressione del leggendario regista. Il trambusto interiore di chi vuole creare solamente qualcosa di bello e lo vede utilizzato per generare dolore, diventa anche quello di Miyazaki. Possiamo, infatti, vedere il cinema come arte, come qualcosa di superiore, ma in un attimo delle mani esperte possono trasformare quelle stesse opere in armi di propaganda. (Vi è mai capitato che qualcosa che avete creato o fatto o detto con le migliori intenzioni venisse ritorto contro di voi?) Quali sono le somiglianze tra la situazione raccontata nel Giappone di inizio Novecento e quella contemporanea? Si può prendere a esempio Internet: un miracolo della comunicazione che ha cambiato la percezione umana e ha consentito a chiunque di avere nella propria tasca un terminale con il quale connettersi alla più grande banca dati della storia umana. Allo stesso modo, il web nasce in seno a un progetto dell’esercito statunitense e, dopo un periodo di sviluppo guidato da alcune università, in breve tempo è stato privatizzato e utilizzato nuovamente a scopo di controllo e non solo.
L’arma migliore che sembra in nostro possesso, secondo Miyazaki, è la creatività. Questa è quella forma di sensibilità che ci fa guardare non oltre le cose, ce le fa mettere a fuoco, quasi come fosse un occhiale per correggere la miopia. La lente è quella dell’amore, per le persone, per quel che si fa e quindi anche per sé stessi. La propria sensibilità è la guida in un mondo che sembra sempre più accelerare e ricoprirci di informazioni contrastanti. Come utilizzate la vostra creatività? Chi sono le cose che amate fare e le persone che vi amano? Con la loro creatività, vi hanno mai fatto cambiare prospettiva radicalmente, facendovi vedere la stessa situazione sotto un altro punto di vista?
Sicuramente, la creatività di Hayao Miyazaki è sconfinata. Si alza il vento doveva essere l’ultimo film del maestro dello studio Ghibli, che però non è riuscito a star lontano dai suoi colori a lungo. Comunque, questo film doveva essere la summa della sua carriera. Se dal punto di vista stilistico lo è, visto che il disegno è quello a cui ci ha abituato il regista di La città incantata e Porco rosso (in cui un uomo italiano viene trasformato in un porco e diventa un pirata dei cieli e delle acque dell’Adriatico), ma ci sono anche degli elementi nuovi (o rigenerati). Con i suoi lavori precedenti ci aveva già abituati al fatto che l’animazione non fosse solamente un genere per bambini. La storia di una principessa e di una maledizione (La principessa Mononoke) può diventare così una favola ambientalista e accattivante anche per gli adulti. Con Si alza il vento però affronta per la prima volta si confronta con una storia vera, che copre un periodo di tempo vasto. Riesce in tutto questo omaggiando Una tomba per le lucciole di Isao Takahata ( amico e collega di una vita, col quale iniziò ad animare Heidi) e inserendovi una storia d’amore che ha il sospiro malinconico e onirico di Haruki Murakami (Norwegian Wood, Nel segno della pecora). Raccontando anche di un periodo storico ancora controverso per il Giappone (non potendo nemmeno difendersi con la prospettiva dei bambini del film di Takahata), Si alza il vento si inserisce in quel filone dell’animazione che si fa anche memoria. Opere come Valzer con Bashir (2008) di Ari Folman, che racconta il trauma l’eccidio libanese del 1982), o Flee (2021) di Jonas Poher Rasmussen, che racconta del viaggio della speranza di un profugo iraniano verso l’Europa, sono film d’animazione che non solo costruiscono memoria, ma vi ragionano anche. Che cos’è, allora, la memoria storica se non un’insieme di racconti condivisi?