Ponyo Sulla Scogliera

Regia: Hayao Miyazaki
Voci: Yuria Nara (Ponyo), Hiroki Doi (Sosuke), Joji Tokoro (Fujmoto), Tomoko Yamaguchi (Risa), Yuki Amami (Granmamare)
Sceneggiatura: Hayao Miyazaki
Fotografia: Atsushi Okui
Montaggio: Hayao Miyazaki
Paese/Anno: Giappone/2008
Distribuzione: Lucky Red
Genere: Animazione/Avventura

Sinossi

Brunilde è un pesce dal volto umano che vive sott’acqua insieme a suo padre, lo scienziato Fujimoto e alle sue sorelle. Desiderosa di scoprire il mondo che la circonda, un giorno scappa dal genitore e raggiunge la superficie. Dopo un fortunoso viaggio a dorso di medusa viene salvata dal piccolo Sosuke, che la chiama Ponyo e promette di proteggerla ad ogni costo. Fujimoto cerca senza tregua la figlia e, alla fine, riesce a recuperarla grazie ai suoi spiriti delle onde. Brunilde e il padre hanno però una discussione. La figlia dichiara infatti la sua volontà di chiamarsi Ponyo e di divenire umana, contravvenendo agli ordini di Fujimoto, che vorrebbe invece proteggerla dal mondo in superficie. Grazie ai suoi poteri magici e al contatto con il DNA di Sosuke, Ponyo riesce a farsi crescere mani e gambe e a tornare sulla terraferma, costringendo Fujimoto a chiedere l’aiuto di sua moglie (e madre di Brunilde), la dea Granmamare. Ponyo si riunisce dunque a Sosuke, che convince sua madre, Risa, a darle un rifugio. L’arrivo di Ponyo in superficie ha però sconvolto irrimediabilmente gli equilibri della natura, la Luna si sta avvicinando al nostro pianeta e il livello del mare si sta pericolosamente alzando. Mentre il destino del mondo è sempre più in bilico e Ponyo e Sosuke vanno alla ricerca di Risa, scomparsa a seguito dell’ennesimo innalzamento delle acque, il bambino capirà che per far tornare tutto come prima dovrà mettere in discussione il rapporto creato fino a quel momento con la sua nuova amica. 

Recensione di Davide Di Giorgio, Sentieri Selvaggi

Oltre le visioni animiste di Princess Mononoke, quelle fiabesche de La città incantata e i conflitti fra tempo e popoli in guerra de Il castello errante di Howl, c’è la sintesi e la serenità di Ponyo sulla scogliera, film nel quale Miyazaki sembra volersi rimettere in discussione, chiudendo un cerchio per aprirne contestualmente un altro. Effettivamente pochi registi oggi sembrano superare e al contempo dare un senso alla consunta definizione di “autore” come fa Miyazaki, reinventandosi per puntualizzare, innovandosi per espandere il proprio universo visivo, immaginifico e tematico, ponendosi in discussione per riaffermare sé stesso. Ogni film di Miyazaki è per questo una tessera di un mosaico, mai uguale a sé stessa eppure immediatamente riconoscibile nella sua identità.

La ricerca quindi di un punto di contatto fra i vari universi in continua evoluzione, che si toccano e si distanziano, porta stavolta il mago giapponese dell’animazione a raccontarci la storia della piccola Ponyo, un pesce dal volto umano che stringe amicizia con Sosuke, un bambino che vive su uno scoglio affacciato su Inland Sea. Ponyo proviene dalle profondità di un mare inquinato dall’industria ma che ancora non ha abbandonato la magia di un tempo antico, dove lo stregone Fujimoto cova il desiderio di rivitalizzare il mondo liberandolo dalla piaga di quell’umanità della quale anch’egli un tempo faceva parte ma che ha abbandonato per abbracciare la vita negli abissi. Ponyo però è diversa dal padre, dopo aver ingerito il sangue di una ferita di Sosuke acquisisce forma umana e vuole riunirsi all’amico terrestre. Un’unione osteggiata da Fujimoto, ma che sembra trovare l’avallo della Grand Mamarre, la madre della piccola Ponyo.

I temi cari all’autore quindi ci sono tutti, ma la loro affermazione non è propedeutica a una voglia di ripetere il già detto, quanto a definire le coordinate di un mondo all’interno del quale muoversi per cercare un punto di contatto fra realtà differenti e nel quale ridiscutere il ruolo della magia e della fantasia: in fondo tra l’acqua e la terra, le donne anziane e i giovanissimi protagonisti, la misantropia di Fujimoto e l’estremo altruismo di Grand Mamarre corre un sentimento unico che tiene unito tutto l’insieme e che permette ai personaggi di stazionare senza soluzione di continuità all’interno di una devastazione che è anche un re-inizio (privo però della dolorosa cupezza apocalittica di Nausicaa o Mononoke), dove i pesci hanno facoltà di parola e Ponyo può transitare dalla forma umana a quella animale, in modo non dissimile da quanto la Sophie del Castello errante di Howl vagava fra gli stadi di giovinezza e vecchiaia.

Il viaggio di Ponyo e Sosuke l’una verso l’altro diventa quindi un avvicinamento progressivo fra una realtà che deve ritrovare la magia e una fantasia che deve essere capace di immergersi nel mondo, in un abbraccio reciproco che ha la stessa delicata intensità della fiaba per bambini che riesce a parlare anche agli adulti.

Il complesso di universi concentrici in continuo movimento ritrova se stesso nella forma adottata dal film, molto immediata, che rimanda ai primi esperimenti con Isao Takahata e ai corti più liberi (e meno visti) dello Studio Ghibli. Personaggi e figure sono dunque essenziali, poco particolareggiati, pensati per arrivare direttamente agli occhi degli spettatori di ogni età, mentre i numerosi fondali dai colori pastello rivelano il tratto disegnato, il colore impresso manualmente sul foglio.

È come se l’uomo che in passato aveva portato avanti l’animazione tradizionale raggiungendo (e a volte superando) quella cura del dettaglio e della fluidità dell’immagine tipica della grande scuola Disney, oggi tenti di recuperare l’essenza più intima del disegno: lasciando da parte la riproduzione perfetta, l’asetticità dell’animazione tradizionale (soprattutto quella digitale, qui completamente assente) per andare al piacere tattile, quasi fisico, artigianale, del creare un mondo senza la mediazione di nulla che non sia la fantasia, la matita e la voglia di infondere vita in un disegno. In fondo il segreto di Ponyo sulla scogliera è proprio questo: abbandonare ogni dicotomia (non esistono “buoni” e “cattivi” nel film), lasciarsi alle spalle i moniti più cupi per arrivare alla sintesi e all’essenza del bello che ancora è presente in questo mondo e che dobbiamo soltanto imparare a riconoscere.

 

Approfondimenti: 

Cultura e natura – Ponyo sulla scogliera permette di riflettere sulla peculiare visione orientale del rapporto tra uomo e natura, agli antipodi rispetto alla sensibilità occidentale. Il “nostro” rapporto con la natura selvaggia pare legato a una lettura di quel contesto come uno spazio con cui entrare pienamente in contatto su cui imprimere, seppur “eticamente”, una nostra presenza: come oggetto di contemplazione, certo, ma anche come spazio da abitare, anche solo temporaneamente. Al contrario, la cultura orientale guarda alla natura con chiaro rispetto ma altrettanta diffidenza. Lo spazio naturale giapponese è in effetti ben più respingente, minaccioso di quello europeo e occidentale in genere, soggetto a terremoti o maremoti, ma anche popolato di animali refrattari alla convivenza con gli esseri umani. 

Ponyo racconta molto bene questa forma mentis: nel momento in cui la natura si scatena, come conseguenza della metamorfosi della protagonista, una delle anziane ospiti della casa di riposo grida terrorizzata allo tsunami in arrivo, che le evoca chiaramente il trauma di un fenomeno vissuto fin troppe volte. Ma non solo: perché quest’approccio alla natura riscrive anche il sistema di valori della cultura giapponese. Nessuno è stupito o spaventato dall’alterità di Ponyo, ma tutti, al contempo, sono preoccupati dei disastri che la creatura sta causando sullo spazio circostante. Si tratta di una linea che viene percorsa e confermata anche da altro cinema, spesso lontano da quello di Miyazaki, spostato in occidente, ma comunque afferente a un contesto culturale legato all’oriente o al Giappone in generale. Pensiamo ad esempio a film Disney come Oceania o Raya e L’Ultimo Drago, in cui si ritrovano tanto il respiro da film catastrofico, quanto il tentativo di ricostruire il legame tra uomo e natura attraverso l’aiuto di creature fantastiche. All’altro lato dello spettro c’è lo sguardo occidentale, placido, affascinato dall’elemento sublime dello spazio naturale: lo racconta bene Luca, altro film Pixar, diretto non a caso dall’italiano Enrico Casarosa, racconto di formazione ambientato in Liguria che, attraverso l’amicizia tra l’umano Alberto e il tritone Luca, tratteggia lo spazio naturale con piglio immersivo, esperienziale: i due protagonisti corrono tra le colline, si tuffano in mare da altezze smisurate, vivono la natura sulla loro pelle, la considerano inscindibile dalla loro identità. Ma è un afflato, questo, che si riscontra anche in molto cinema Hollywoodiano, pensiamo, ad esempio, al senso di meraviglia che coglie Milo Tatch, protagonista del classico Disney Atlantis – L’Impero Perduto, nel momento in cui entra nella città che si credeva sommersa, ma torniamo con la mente anche alla straordinaria sequenza in cui vediamo Jake Sully avvicinarsi, eccitato, per la prima volta all’insediamento Na’Vi di Pandora in Avatar, alla sua espressione estatica mentre osserva uno spazio, una natura, in tutto e per tutto inediti. 

 

Il giusto modo di essere ambientalisti – Ponyo problematizza in modo non scontato la questione dell’impegno ambientalista. Lo mostra già con chiarezza l’atteggiamento dello scienziato Fujimoto, che vuole purificare le acque oceaniche ma disprezza il genere umano e attende una nuova era in cui non ci sia più spazio per l’uomo ma solo per la natura. E tuttavia non basta. Perché al di sotto della sincera amicizia che si sviluppa tra Ponyo e Sosuke, il film ragiona tra le righe su un sospetto inquietante: e se Sosuke volesse per sé Ponyo per un capriccio, per puro egoismo? Dopotutto di fronte a noi c’è un bambino che comprende cosa rischia il pianeta se Ponyo non torna alla sua forma naturale, solo alla fine. Inizialmente Sosuke vuole soltanto godersi la sua nuova amicizia, tutelare, fuor di metafora, la natura senza riflettere sul modo giusto per farlo e rischiando, dunque, conseguenze controproducenti per la causa. C’è il tentativo di sviluppare un ambientalismo etico, alla base di Ponyo, che ragiona di buone pratiche ma anche di estremismi legati alla difesa della natura e che torna spesso nello spazio dell’intrattenimento contemporaneo. Rimanendo sempre in Oriente, pensiamo ad Okja, di Bong Joon-ho, altro film d’avventura con al centro l’amicizia tra una ragazzina e un maiale destinato al macello. Quando la protagonista diverrà tuttavia una pedina manipolata dal leader di un’organizzazione ambientalista, che si fa pochi scrupoli ad usarla per svelare il lato oscuro del potere centrale, il confine tra bene e male verrà superato e Jay, leader del gruppo, finirà per mettere in discussione le motivazioni del suo agire. Ma persino il gesto di Thanos, l’antagonista degli Avengers al cinema e nei fumetti, che schioccando le dita fa sparire metà della popolazione dell’universo può essere inserito sulla stessa linea. Alcune interpretazioni affermano infatti che lo abbia fatto perché spinto da una strana idea di ecologismo, dalla volontà di preservare le risorse naturali, un’idea portata certo a compimento dal suo gesto, ma a che prezzo?

Si tratta tuttavia di uno spunto che va ben oltre il cinema. Il classico videoludico Final Fantasy VII inizia ad esempio quando un gruppo di ambientalisti compie un violento attacco alla multinazionale Shinra, colpevole di sfruttare impunemente le risorse del pianeta, distruggendo tuttavia gran parte della città circostante l’azienda. Ancora, la straordinaria gestione del classico personaggio dei fumetti Swamp Thing (alias di Alec Holland, scienziato trasformato in ibrido uomo/pianta) da parte di Alan Moore ha al suo centro il confronto tra l’eroe e Jason Woodrue, che vorrebbe prendere il controllo della vita vegetale per distruggere l’uomo. Non solo, dunque, Woodrue è un ecologista che agisce attraverso metodi discutibili ma anche Swamp Thing si troverà a confrontarsi con un conflitto etico centrale che coinvolge la sua identità, divisa tra il mondo degli uomini e quello delle piante.

 

Il Bestiario di Miyazaki – In rapporto al suo genere e al suo immaginario di riferimento, Ponyo dialoga in maniera ambivalente e complessa in particolare con due spazi di riferimento. Il primo è il filone che prova a raccontare, attraverso il cinema, il rapporto con l’altro e di cui, ad esempio, fa parte un classico come ET l’Extraterrestre di Steven Spielberg, ma molto più interessante, per certi versi, è inserire Ponyo all’interno del vastissimo bestiario proprio del cinema di Miyazaki (e di certo cinema orientale in generale), verificare in che modo la protagonista si rapporta con esso ma anche, forse soprattutto, le affinità e le divergenze che emergono dal contatto tra questo cinema dell’alterità e lo stesso immaginario ripensato da una prospettiva occidentale. 

Ponyo convive ad esempio nello stesso spazio di Arietty, protagonista della serie di racconti fantasy per ragazzi Gli Sgraffignoli, dell’inglese Mary Norton ma anche dell’omonimo film del 2010 diretto da Hiromasa Yonebayashi, sceneggiato, tuttavia, sempre da Miyazaki. Arrietty è un’altra creatura umanoide, come Ponyo, alta tuttavia solo una manciata di centimetri, che vive sotto al pavimento di una grande casa di campagna, si nutre con la sua famiglia degli scarti dei Grandi Umani e un giorno stringerà amicizia con il piccolo Sho, che attraverso di lei riscoprirà la bellezza della vita e imparerà a convivere con la natura anche attraverso il riciclo. E ancora, pensiamo a Totoro, la creatura metà orso metà gatto protagonista de Il Mio Vicino Totoro, ancora di Hayao Miyazaki, un troll della mitologia giapponese (il bestiario del cineasta è in effetti legatissimo al folklore orientale), che farà amicizia con Sutsuki, una bimba a cui farà conoscere i segreti della foresta di cui è nume tutelare e che accompagnerà durante un difficile momento della sua crescita, quando la piccola sarà costretta a confrontarsi con la malattia della madre. 

All’infuori del cinema di Miyazaki, sulla stessa linea tematica, emerge il caso de The Boy And The Beast, di Mamoru Hosoda, altro caso di racconto di formazione “a parti invertite”, in cui un ragazzino, Ran, dopo la morte della madre, si isola e finisce per caso in un universo parallelo popolato da bestie mitologiche. Conoscerà Kumatetsu, un guerriero che lo prenderà sotto la sua ala e lo addestrerà alla durezza della vita. 

Rarissimi sono i casi in cui il cinema occidentale ha ragionato seguendo più o meno apertamente le stesse coordinate, ma vale la pena citare il caso di Sette minuti dopo la mezzanotte, dello spagnolo Juan Antonio Bayona, tratto dall’omonimo romanzo di Patrick Ness, storia di Conor, ragazzo vittima di bullismo e costretto ad assistere alle sofferenze della madre malata che, una notte, poco dopo la mezzanotte viene visitato da un albero umanoide, venuto a raccontargli una serie di storie che, incontro dopo incontro, lo aiuteranno a reagire alle difficoltà.

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