The breakfast club

Regia: John Hughes
Interpreti: Judd Nelson, Molly Ringwald, Anthony Michael Hall, Emilio Estevez, Ally Sheedy, John Gleason, John Capelos
Sceneggiatura: John Hughes
Fotografia: Thomas Del Ruth
Montaggio: Dede Allen
Paese/Anno: USA/1985
Distribuzione: UIP – CIC Video
Durata: 97′
Genere: Commedia, Drammatico, Teen

SINOSSI

 

  1. In un liceo di Chicago cinque adolescenti devono trascorrere un sabato pomeriggio in punizione nella biblioteca della scuola, ognuno per un motivo diverso e non meglio specificato. Il preside Vernon assegna loro un compito: svolgere un tema che risponda alla domanda “Chi sono io?”. Dopo diverse ore passate a scambiarsi battute, punzecchiarsi reciprocamente , tutti e cinque cominciano ad esporsi e a confrontarsi sui propri problemi esistenziali, in particolare legati alle rispettive famiglie e alle aspettative e frustrazioni che i genitori riversano su di loro. Nel raccontarsi, man mano i ragazzi svelano anche i motivi che li hanno portati alla punizione: Andy, l’atleta del gruppo, vive un rapporto conflittuale con il padre e bullizza un suo coetaneo per sfogarsi, mentre John subisce le ire di un padre violento e per attirare un po’ di attenzione su di sé ha azionato l’allarme antincendio. Brian, invece, è continuamente messo sotto pressione dai suoi genitori per avere ottimi voti e per questo ha tentato il suicidio. Allison invece viene completamente ignorata dai suoi familiari e si trova in punizione senza un reale motivo. Infine, Claire vive trattata come una principessa dai suoi genitori che la usano per i loro scopi, e ha per questo ha saltato la scuola per andare a fare shopping. Se l’obiettivo del preside è quello di portare a riflettere i cinque adolescenti sui loro errori e i motivi che li hanno portati alla punizione, dal confronto e dalla condivisione uscirà un ritratto molto più profondo e sfaccettato, fatto di paure, rabbia e desideri comuni, difficoltà familiari e personali, e la voglia di scoprire se stessi al di là delle stereotipate ed ottuse etichette che gli adulti, genitori e insegnanti, si ostinano ad attaccare addosso ai ragazzi.

 

RECENSIONE di Emanuele Di Porto, Sentieri Selvaggi

The Breakfast Club non è il film più riuscito di John Hughes e nemmeno il più divertente. Tuttavia, le caratteristiche insolite della sua struttura chiusa lo hanno fatto diventare il manifesto di uno dei registi più influenti del cinema americano degli anni Ottanta. Per estensione, la storia di cinque ragazzi che devono passare un sabato in punizione nella biblioteca del loro liceo conserva l’immagine di tutta la sua epoca.

La sceneggiatura rispetta in maniera talmente rigorosa le tre unità aristoteliche da sembrare inerte. The Breakfast Club è un film in cui le azioni vengono solo raccontate dai personaggi con delle lunghe sequenze di dialogo. La staticità viene solo a volte movimentata da degli intermezzi musicali che non hanno alcun intento coreografico. Eppure, è proprio questa essenzialità a mostrare tutti i punti nevralgici della scrittura di John Hughes.

Il sostanziale spazio fisso dell’ambientazione sfugge all’accusa di teatro filmato per l’uso ricorrente del montaggio interno e del primo piano. The Breakfast Club usa tutti i mezzi a disposizione del cinema per rubare un’emotività di cui i suoi personaggi si vergognano. John Hughes li combina per sottrazione con la sua straordinaria capacità di interpretare un sentimento generazionale. Infatti, è impossibile separare la fragilità dei suoi giovani dal contesto storico del mito reaganiano. La loro diversità era ancora più osteggiata in una sovrastruttura che predicava il conformismo ai sani valori americani. La loro tentazione di sottrarsi all’ossessione della competizione era l’inizio di un disturbo sociale.

I liceali di The Breakfast Club non solo hanno la paura di non realizzarsi ma addirittura quella di non esistere affatto. Così, Molly Ringwald soffre i suoi istinti sessuali per la paura di non esserne all’altezza e di conseguenza finge di essere un oggetto del desiderio. L’argomento della prima volta ricorre in quasi tutte le conversazioni in un modo esplicito per gli standard di trentacinque anni fa. The Breakfast Club non è un film in cui i personaggi si parlano addosso perché le loro angosce sono condivise dal pubblico.

John Hughes è stato abile non solo a comprenderle e a sintetizzarle, ma anche a mostrarle con uno sguardo di benevolenza e di complicità. L’idea di invertire le relazioni tipiche della teen-comedy tradisce un’opera di mediazione. La ragazza dei quartieri alti è attratta dal teppista invece che dall’atleta. Invece, l’aitante Emilio Estevez trova un punto di contatto con la disadattata. I giochi delle coppie sono un chiaro intervento di manipolazione narrativa. Il fatto che il geek ne resti fuori tenta di smorzare l’espediente per cui c’è sempre un posto per tutti. Tuttavia, il resto del film procede seguendo un copione aperto all’improvvisazione e alle suggestioni del momento. The Breakfast Club è stato così identificativo perché spesso la sintonia tra il cast e il regista annulla la barriera della recitazione.

Del resto, l’obiettivo principale del film è quello di mettere a nudo la verità interiore dei ragazzi. Un’anima scomoda che si nasconde ancora di più dietro la loro composizione marcatamente tipizzata. Le funzioni narrative tipiche del cinema di John Hughes si rendono ancora più esplicite all’interno di una trama ridotta al minimo necessario. Judd Nelson è strepitoso nell’incarnare l’incontenibile volontà di potenza della giovinezza. Il suo fastidioso animo ribelle serve per stimolare e liberare quelle pulsioni costantemente represse dal contesto familiare e scolastico. La sua insolente perseveranza conduce alla confessione collettiva del gesto estremo che ha all’origine della punizione. Un atto catartico in cui tutti gettano la maschera e mostrano la loro debolezza e la loro vera indole.

John Gleason è altrettanto adeguato a declinare tutte le forme dell’autorità, secondo un altro schema a specchio tipico dei film di John Hughes. Infatti, la parte degli adulti è quasi sempre limitata alla proiezione del terrore adolescenziale di diventare come loro. Il preside si lamenta con il bidello che i giovani sono diventati indolenti ed irrispettosi. L’inserviente gli fa notare che i teen-ager sono sempre gli stessi, mentre la sua vita e la sua carriera lo hanno invecchiato e cambiato. Tutti i personaggi di The Breakfast Club cercano di sfuggire alla consapevolezza di questa metamorfosi. Le loro conversazioni sono intrise della paura di non essere capiti, amati e ricordati per quello che erano prima di questo momento. La maturità è una conquista che rende disillusi e privi di empatia persino verso i propri figli. La sua contrapposizione con una immaturità dolente ma vitale è il fulcro di ogni film di John Hughes. Quindi, Ally Sheedy chiude la lunga sequenza della liberazione con una frase che riassume tutto il suo cinema: quando uno cresce, il suo cuore muore.

 

Tra i registi che meglio hanno saputo raccontare un periodo di trasformazione come l’adolescenza, in un momento di grandi cambiamenti politici, sociali ed economici come gli anni ‘80, John Hughes segna un punto di rottura con la narrazione teen precedente, quella della Gioventù bruciata di Nicholas Ray (1955) o dell’American Graffiti di George Lucas (1973).  Già regista di Sixteen candles, uscito nel 1984, con The Breakfast club (contemporaneo di un altro cult movie adolescenziale come I Goonies), Hughes calca ancora più la mano sull’inevitabile distanziamento che insorge tra i giovani dell’epoca e la generazione degli adulti. Ronald Reagan è stato appena rieletto per il secondo mandato e gli Stati Uniti cavalcano l’onda del crescente yuppismo.

L’intenzione di Hughes è di raccontare una generazione e, di riflesso, anche l’intero sistema statunitense. Ma mentre Lucas racconta i turbamenti adolescenziali facendoli scontrare con il mondo esterno, Hughes rinchiude i propri protagonisti in uno spazio chiuso e avulso da ciò che c’è fuori, dichiarando così l’impossibilità per i giovani di farne parte, di trovare il proprio spazio e la propria identità in ruoli sociali pre costruiti e imposti dall’alto. Ne consegue l’ovvia necessità, per i ragazzi, di costruire una società a propria immagine e somiglianza. Proprio il senso di incomprensione e disapprovazione che percepiscono da parte degli adulti, è la molla che fa scattare la voglia di condividere le proprie esperienze, i propri pensieri, per scoprire di non essere poi così diversi gli uni dagli altri, mossi da sentimenti e fragilità comuni, come la rabbia verso i genitori o le insicurezze dovute al peso di giudizi e aspettative altrui. L’atto più rivoluzionario, attraverso cui rivendicare la libertà di essere se stessi, diventa allora proprio la reclusione, il sottrarsi fisicamente ad un mondo che li vuole incasellare. Gli echi del cult di John Hughes e della sua abilità nel ritrarre l’adolescenza con sensibilità e rispetto, trovano terreno fertile in cui attecchire fin dagli anni immediatamente successivi, con esempi altrettanto fondamentali come Stand by me (Rob Reiner, 1996) o Reality Bites di Ben Stiller (1994), fino ad arrivare, ancora intatti, al cinema contemporaneo, da Wes Anderson (Rushmore, I Tenenbaum, Moonrise Kingdom), passando per opere indipendenti come Lady Bird di Greta Gerwig, fino alla nuova frontiera della serialità, tra tutti We are who we are di Luca Guadagnino, forse tra le opere recenti più lucide nel tratteggiare la giovinezza. 

 

Il boom economico degli anni ‘80, in campo audiovisivo segna il passaggio ad una nuova forma di cinema che mutua il proprio linguaggio da due principali fonti: da una parte i videoclip, portati alla ribalta dalla nascente MTV, e dall’altra la pubblicità. Sono gli anni del cinema dei fratelli Scott, con il Blade Runner di Ridley da una parte (1982) e Miriam si sveglia a mezzanotte di Tony dall’altra (1983). I videoclip e gli spot mostrano contenuti frenetici, colorati, pop, autoreferenziali e ipnotici, creati appositamente per attrarre il pubblico e incollarlo allo schermo. Inizia a farsi strada la modalità del mixtape, entrano in scena il walkman e le musicassette, mentre le hit di Michael Jackson, Madonna, Cindy Lauper, David Bowie, tra i tanti, scalano le vette delle classifiche mondiali. La cultura pop detta legge in fatto di moda, stile e “commerciabilità” dei prodotti, coadiuvata da orecchiabili jingle musicali strutturati in strofe e ritornelli facili da memorizzare. Autori e registi  del periodo assorbono in fretta la nuova ondata musicale, costellando le colonne sonore dei loro film di hit popolari che diventano ben presto le colonne sonore esistenziali di un’intera generazione di adolescenti, sempre in prima linea nell’intercettare le nuove tendenze. John Hughes non è da meno, tanto che nel suo The Breakfast Club, considerato a tutti gli effetti un manifesto generazionale, non può esimersi dall’inglobare stili e linguaggi della cultura pop anni ‘80. E lo fa a partire proprio dalle musiche, da Don’t you (forget about me) dei Simple Minds che apre e chiude il film, in nome di quel pattern circolare e ritornante tipico dei brani del periodo, fino a Changes di David Bowie, il cui testo compare in parte sullo schermo subito dopo i titoli di testa. In un periodo di trasformazioni epocali, sociali, politiche, economiche e culturali, di rottura col passato con la promessa di un futuro brillante, anche il cinema sente il bisogno di legare a doppio filo la propria identità alle iconografie del contemporaneo.

Fino a quando, all’inizio degli anni ‘90, un’intera generazione di cineasti emergenti farà convergere definitivamente l’industria musicale e quella cinematografica, prestandosi con entusiasmo alla regia di videoclip per musicisti di grido e spot pubblicitari, da Michel Gondry (che dirige Bjork, Daft Punk, The Chemical Brothers, Massive Attack, Foo Fighters, Radiohead…) a Sofia Coppola (White Stripes, Phoenix), passando per David Fincher (tra i tanti, Sting, Madonna, Michael Jackson, Rolling Stones), fino a Spike Jonze (Sonic Youth, R.E.M., Bjork) e Paul Thomas Anderson, ormai fidato collaboratore di Radiohead e Haim. In tempi recenti, il prodotto che maggiormente ha fatto proprio l’immaginario di questo cinema, per tematiche, generi, stilemi e, naturalmente, musiche, in maniera certamente, ed esageratamente, derivativa, è senza alcun dubbio Stranger Things, serie teen targata Netflix, uscita sulla piattaforma nel 2016 e arrivata ad oggi alla quarta stagione, ha contribuito a rilanciare (o a far scoprire) perle musicali più o meno note, da Should I stay or should I go dei Clash (1981) fino al boom raggiunto da Running up that hill di Kate Bush (1985), tema portante dell’ultima stagione, salita in cima alle classifiche mondiali di Spotify e iTunes grazie alla serie.

LINK

Stranger Things – Kate Bush: https://www.youtube.com/watch?v=bV0RAcuG2Ao

Stranger Things – Should I stay or should I go: https://www.youtube.com/watch?v=bnMlqMjhy74 

Michel Gondry pubblicità : https://www.youtube.com/watch?v=3Mpw4eg2K4E 

Anima (Paul Thomas Anderson): https://www.youtube.com/watch?v=YNYJ_BJJbzI

Spike Jonze – spot Apple: https://www.youtube.com/watch?v=k70OczvX45k 

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