The Blues Brothers

Regia: John Landis
Voci: John Belushi (Jake Blues), Dan Aykroyd (Elwood Blues), John Candy (Burton Mercer), Carrie Fisher (ex fidanzata di Jake), Aretha Franklin (Moglie di Matt Murphy), Ray Charles (Ray)
Sceneggiatura: John Landis, Dan Aykroyd
Fotografia: Stephen M. Katz
Montaggio: George Folsey Jr.
Paese/Anno: USA/1980
Distribuzione: Universal Pictures
Genere: Musical/Demenziale

Sinossi: Appena scarcerato dopo un periodo di detenzione di tre anni, Jake, cantante leader della Blues Brothers Band si riunisce a suo fratello Elwood, anch’egli nel gruppo. I due si recano nell’orfanotrofio in cui sono cresciuti e vengono a sapere dalla Madre Superiora che l’Istituto rischia di chiudere a meno che non vengano versati cinquemila dollari di tasse. La suora, tuttavia, chiarisce fin da subito che non accetterà soldi rubati. Desiderosi di dare comunque una mano ma incapaci di pensare ad un piano onesto per farlo, Jake ed Elwood si recano in chiesa. Dopo aver ascoltato il sermone del reverendo Cleophus James, Jake ha un’illuminazione divina e capisce che per salvare l’orfanotrofio è necessario riunire i membri della band e organizzare nuovi concerti. Non sarà tuttavia un’impresa facile. Non solo perché ciascuno dei vecchi compagni di strada di Jake ed Elwood sembrano aver cambiato vita passando ad occupazioni più stabili e rispettabili ma anche perché il loro sarà un viaggio on the road ricco di ostacoli e di guai a tal punto che i due fratelli saranno costretti a fuggire costantemente dalla polizia di stato, dai nazisti dell’Illinois, dall’ex fidanzata di Jake e da un gruppo country rivale a cui i due hanno fatto un torto.

Recensione: di Valentina Gentile, Sentieri Selvaggi  

I fratelli Blues, Jake e Elwood, hanno a cuore il destino del vecchio orfanotrofio di Chicago dove sono cresciuti. Per impedirne la chiusura devono assolutamente racimolare 5000 dollari. Devono farlo in fretta. E per di più, cosa ancor più difficile, in modo onesto. Devono redimersi, come gli urla la vecchia madre superiora che dirige l’istituto. Decidono di rimettere in piedi la vecchia band e di rimettersi a suonare. Solo che le cose non sono così semplici, soprattutto perché Jake è appena uscito di prigione e la catena di pasticci in cui i due si cacciano non promette niente di buono. Ma i fratelli e i loro soci sono in missione per conto di Dio, e vanno avanti per la loro strada. Combineranno talmente tanti guai da avere ben presto mezza polizia, e non solo, dell’Illinois alle calcagna. Ma a loro non importa. E anche se alla fine si riaprissero le porte della prigione, l’importante sarà aver assicurato un futuro ai bambini dell’orfanotrofio e alla burbera suora. Cosa si può dire su un film di culto che non sia già stato detto? Probabilmente ben poco. Il successo di The Blues Brothers sorprese tutti, compreso lo stesso John Landis che, a due anni di distanza da Animal House (1978), richiamò con sé John Belushi. L’idea era nata proprio da John e dal suo amico Dan Aykroyd che, durante le riprese di Animal House, si erano esibiti sotto le spoglie di Jake e Elwood Blues al Saturday Night Live in una serie di sketch musicali. Il film costò circa 30 milioni di dollari, ben 18 milioni in più dei 12 inizialmente previsti dalla Universal. Strano caso di block-buster a scoppio ritardato: almeno in Patria, dove stentò a decollare e lo fece dopo che all’estero era già iniziata la Blues Brothers mania. Commedia anarchica, bizzarra, The Blues Brothers gioca con uno dei generi che ha fatto grande Hollywood, il musical, e lo mette a disposizione di due attori genialoidi e sufficientemente folli e di una serie di grandi, grandissimi musicisti. John Landis traspone in immagini e musica la sceneggiatura che lui stesso aveva firmato insieme a Dan Aykroyd. Dopo Animal House è la consacrazione assoluta di John Belushi. L’impatto più grande del film fu soprattutto sulla musica, che vide il ritorno prepotente e inaspettato di geni dimenticati del calibro di Ray Charles, Aretha Franklin, Cab Calloway e James Brown, in un periodo, quello dei primi anni ’80, in cui musica nera e blues volevano dire “Le freak c’est chic” o, peggio ancora, “Disco Inferno”. Catturare l’essenza, le ragioni profonde che fanno di un film di successo un film di culto non è cosa semplicissima. C’è un margine, un confine non ben delineato, attraversato il quale scatta qualcosa all’improvviso. Una sceneggiatura volutamente strampalata, due attori che, moderni fratelli Marx, si immergono in due personaggi coraggiosamente marchiati fisicamente, una città, Chicago, trasformata in una sgangherata sinfonia post-industriale. Poche parole e tanti fatti. Inseguimenti, accartocciamenti di macchine, ponti che si aprono al momento sbagliato, una donna misteriosa (è la principessa Leila-Carrie Fisher) che prepara attentati e semina dinamite e distruzione, i nazisti dell’Illinois. E soprattutto tanta, tantissima musica. 

Approfondimenti: 

L’ambizione e l’ossessione

Dopo l’illuminazione, Jake ed Elwood si convincono di essere in missione per conto di Dio e che, per questo, qualunque cosa accadrà loro, alla fine, riusciranno nel loro intento proprio perché evidentemente protetti e guidati da una potenza superiore. È uno script veloce, fisico, ma al contempo impalpabile, quello di The Blues Brothers, in cui le situazioni si susseguono a cento all’ora ed i temi scorrono quasi senza peso di fronte allo spettatore ma non possiamo non ragionare sul modo in cui, attraverso una semplice battuta che viene rimpallata nel corso del racconto, Landis di fatto costruisca il suo film anche attorno ad uno dei temi centrali della letteratura e del cinema: l’ossessione. 

Jake ed Elwood, anche in virtù dell’investitura sacra del loro compito non sembrano volersi fermare di fronte a nulla di ciò che si frappone tra loro ed i soldi necessari per salvare l’orfanotrofio, né i rifiuti degli ex componenti della band, spesso asserviti ai meccanismi della borghesia americana, né le aggressioni dei nazisti o la caccia organizzata contro di loro da “tutta la polizia dello stato”. Certo è che Landis, prevedibilmente, svuota uno spunto altrimenti densissimo di implicazioni ideologiche e lo utilizza soprattutto come paradossale detonatore di situazioni comiche e demenziali: non solo dunque basta solo alludere alla loro “missione” per convincere ogni membro della band a mettersi in viaggio con i fratelli Blues ma soprattutto l’alone sacrale che ammanta il cammino dei protagonisti sembra essere il motivo per cui i due riescono a sopravvivere senza un graffio alle aggressioni più efferate e violente che li coinvolgono, come quando l’ex fidanzata di Jake (Carrie Fisher) fa saltare in aria l’appartamento in cui lui ed Elwood stanno trascorrendo la notte. 

Il tema ha costeggiato, ovviamente, quel cinema che in un modo o nell’altro ha raccontato storie su ambiziosi artisti in ascesa. Viene in mente a questo proposito un musical come All That Jazz, di Bob Fosse, in cui Roy Scheider interpreta un regista teatrale ossessionato dalla perfezione a tutti i costi, pronto a sacrificare tutto sull’altare dell’arte. Ma pensiamo anche ad un intero cinema, quello di Damien Chazelle che nei suoi momenti migliori ha saputo raccontare con grande cura l’ossessione dei suoi protagonisti, con tutto il suo carico di inquietudini, da Whiplash, storia di un batterista che pare perdere sé stesso mentre cerca di emergere tra gli allievi di una prestigiosa scuola di musica a First Man, sulla corsa allo spazio degli Americani, di fatto il racconto dell’ossessione della Nasa di arrivare sulla Luna prima dei Russi, costi quel che costi. 

Ovvio che i risultati più efficaci, tuttavia, un tema del genere li ha raggiunti quando è stato fatto reagire con generi come il thriller psicologico o l’horror, come in The Prestige, di Christopher Nolan, in cui due prestigiatori iniziano una competizione senza esclusione di colpi alla ricerca del trucco più stupefacente e, forse, soprattutto, l’affascinante Number 23, di Joel Schumacher, in cui Jim Carrey interpreta un uomo che lentamente finirà per essere ossessionato per il numero 23, vero e proprio fantasma che infesterà la sua quotidianità.

La Musica, l’identità ed il pregiudizio

Si potrebbe discutere molto sull’idea di militanza attraverso l’arte che emerge in The Blues Brothers, raramente posta in primo piano all’interno della narrazione eppure sempre centrata, sviluppata con grande precisione. È, ovviamente, un discorso che emerge già da alcuni dei passaggi più noti e divertenti del film di Landis, a partire dall’astio che contrappone la band dei fratelli Blues ai nazisti dell’Illinois, un contingente dei quali viene quasi investito dai protagonisti durante una delle loro numerose fughe, ma una gag del genere è l’apice di un film che in realtà usa la musica per ragionare del rapporto che intercorre tra identità, pregiudizi e politica con straordinaria modernità.

Non sarebbe così scontato, in fondo, vedere nella band di Jake ed Elwood (non a caso “meticcia”, formata da musicisti bianchi e neri), un gruppo legato alle istanze del black pride, con radici ben piantate nella blackness del Rhythm And Blues, che costeggia i luoghi e le icone della soul music per proteggerli da una dimensione artistica che rischia di lasciarli in secondo piano. E allora, da questo punto di vista, forse, ben più degli screzi con i nazisti, fa gioco migliore all’idea di militanza portata avanti dal film il numero finale, con la band che suona Sweet Home Chicago di Robert Johnson nella cornice borghese all white dell’elegante Palace Hotel, roccaforte di una borghesia che spesso si rapportava al blues e alla cultura afroamericana con malcelato razzismo. 

Senza arrivare al didascalismo del classico Billy Elliot, in cui il ragazzino protagonista rivendica la sua alterità nei confronti della società con cui si interfaccia combattendo il pregiudizio culturale che vorrebbero impedirgli di danzare, attività considerata poco virile rispetto al pugilato, il passo militante del Blues Brothers di Landis si ritrova forse da un lato in Velvet Goldmine, film musicale di Todd Haynes con al centro Brian Slade (popstar ispirata a David Bowie e Lou Reed) che lentamente diventa la storia di scoperta e autoaffermazione dell’identità omosessuale del protagonista attraverso la musica, dall’altro in alcuni interessanti progetti dell’inglese John Carney. Non solo Sing Street, su un giovane che nell’Irlanda degli anni ’80 si appassiona alla cultura New Romantic ed al glam rock e si confronta, per questo, con il bigottismo di istituzioni conservatrici come la scuola cattolica da lui frequentata ma anche il precedente Tutto Può Cambiare, un altro film di resistenza e identità, sebbene declinata all’interno del mondo dell’industria musicale. La storia è infatti quella di un produttore musicale che ritrova l’entusiasmo della creazione artistica aiutando una giovane cantautrice ad esordire nella musica che conta, proteggendola dal tritacarne spersonalizzante del music business e ribellandosi, in tralice, ad un suono che sembra guardare con sospetto tutto ciò che è diverso da ciò che già si conosce.

 

Schegge di Musical

La definizione di musical con cui viene spesso catalogato The Blues Brothers sta evidentemente stretta al film di Landis, che colpisce proprio per il modo tutto particolare che ha di giocare con gli stilemi del suo genere di definizione. Non è soltanto un discorso legato al posizionamento dell’elemento musicale all’interno del racconto, mai davvero totalizzante o comunque fondante la narrazione (come accade, ad esempio, con alcuni classici del genere, interamente cantati, come Jesus Christ Superstar, di Jewison, tra i moltissimi), ma piuttosto al centro di svolte del racconto in cui l’esibizione canora viene giustificata narrativamente dal film (e allora ecco che quello di Landis, al massimo, è un film musicale, come Sister Act, con Whoopi Goldberg), quanto un discorso che sembra considerare quello del musical uno spazio residuale, al massimo una dimensione da riconfigurare, da attraversare concentrandosi però su altri generi, su altri immaginari, con piglio giocoso. 

Ecco spiegate allora, soprattutto, gli straordinari momenti action del film, le esplosioni, le sparatorie che puntellano il racconto ma soprattutto i vertiginosi, demenziali inseguimenti in macchina che ricordano certe meravigliose sequenze del cinema di Friedkin o Yates (come in The French Connection), momenti che con il musical poco hanno a che fare ma che, malgrado le apparenze, non sono casi isolati in certo cinema.

 Quattro anni dopo Walter Hill avrà forse negli occhi il film di Landis quando dirigerà Strade Di Fuoco, musical rock che da quel mondo, oltre alle esibizioni musicali della band di finzione degli Attackers, comprimari del racconto, mutua soprattutto certe idee cromatiche e l’approccio sopra le righe al racconto ma che, in realtà, è un ruvido neo noir su un reduce di guerra costretto ad andare al salvataggio della fidanzata, rapita durante un concerto da una banda di motociclisti. 

Oltre ad alcuni noti esempi limite in questo senso, che conservano la loro identità di musical ma che flirtano con atmosfere vicine all’horror e al grottesco (non solo Rocky Horror Picture Show ma anche il Burtoniano Sweeney Todd), val la pena citare un progetto come Purple Rain, musical semi biografico costruito sul corpo e sullo star power di Prince, da lui stesso interpretato e che si muove tra le linee tanto del film musicale in senso stretto quanto di quelle del romanzo di formazione. In ultimo imprescindibile non soffermarsi su Dancer In The Dark, musical convintamente stilizzato, ridotto ai minimi termini e ricombinato da Lars Von Trier sull’attorialità (e sul suono) della performer islandese Bjork in cui la musica diventa il pretesto per un racconto melò che riflette su amore e morte con piglio esistenzialista.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *